MISTERO BUFFO: UN’INFANZIA A CASA FO

MISTERO BUFFO: UN’INFANZIA A CASA FO

COME SI CRESCE NELLA FAMIGLIA PIÙ RIBELLE DEL TEATRO ITALIANO? LO RACCONTA IL FIGLIO JACOPO IN UN LIBRO: COMUNISMO LIBERATORIO DOGMI ETICI E IMPEGNO. QUELLO DI DIVENTARE GRANDI TRA GRANDI.

di Paola Zanuttini

Gubbio (Perugia). C’è un drago colorato. Che bocca grande che ha: ci si può entrare dentro. Ma lo smalto dei dentoni è in condizioni pietose e allora Jacopo Fo gli restituisce luce e candore a colpi di pennello e pittura bianca. Fra gigantesse di mosaico, teste bifronti che custodiscono stanze da gioco per bambini, totem appostati nell’erba e murales dipinti da Dario (Fo, ovvio: qui si chiamano tutti per nome, anche i babbi premi Nobel) svetta Batman che, atterrato su un tetto, domina e protegge tutto il circondario.
In questo parco giochi-resort-santuario della cultura fricchettona e libertaria degli anni Settanta denominato Alcatraz – anzi: Libera Università di Alcatraz – fondato agli arbori degli anni Ottanta, mentre il riflusso inghiottiva il buono e il cattivo delle culture giovanili, l’unico erede del Nobel e della sua rutilante compagna di vita, scena e militanza ha scritto Com’è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo. È un amarcord familiare e sociale che racconta come si viene su in una famiglia di teatranti comunisti e libertari il cui manifesto pedagogico può essere sintetizzato nella parola d’ordine «Fai quel che vuoi che campi di più». Attenzione: l’atteggiamento in apparenza anarco-permissivista può essere più condizionante del regime militare.
Comunque l’autore è grato ai genitori per l’educazione ricevuta, riciclata con le due figlie, aggiungendo magari qualche correttivo. «L’idea del libro mi è venuta dopo aver partecipato ad una puntata di Otto e mezzo sulla caduta dei modelli educativi e il tramonto della disciplina: esposi le mie tesi e Lilli Gruber mi disse che non era per niente d’accordo con me. Ho pensato che serviva un po’ di divulgazione».
Tornando alla parola d’ordine di cui sopra, Fo junior ammette che ha i suoi risvolti pericolosi: nel senso che non è giusto reprimere o punire un bambino che ha disubbidito, si è messo a correre ed è inciampato, quando invece è consigliabile congratularsi con lui per essere caduto bene senza fratturarsi, ma certe volte il senso di responsabilità prodotto dalla libertà di fare quel che vuoi può essere pesantissimo. «La libertà di fare non è un’assoluzione se non fai niente, ma è uno stimolo a trovare la tua passione e seguirla fino in fondo. Sempre e comunque».
Già nelle prime pagine Jacopo Fo si definisce un bambino psicotico. Poi, a voce, sdrammatizza: nessuna psicosi, ma in famiglia qualche contraddizione c’era: «Per esempio, quella di due genitori amatissimi che sei mesi l’anno non c’erano. Io avevo sviluppato una strategia di potere nei confronti di mio padre, avevo il permesso di entrare nel suo studio quando lavorava, ma senza disturbarlo, e allora mi mettevo a disegnare: sapevo che non poteva resistere, dopo pochi minuti lasciava perdere la scrittura, si stendeva per terra con me e si metteva a disegnare anche lui».
Una famiglia di teatranti comunisti e libertari doveva per forza essere anche anticonformista: così, quando il piccolo Jacopo tornò a casa con il compito di ricopiare il disegno di una casetta rosa, il padre gli stravolse l’opera disegnando un quadrato viola sul muro. Il bambino si risentì: «Ma papà è una casa rosa!». Il papà: «C’è il fulmine!». Come instillare la trasgressione nelle giovani menti.
Però a casa Fo si instillava anche la perseveranza: un giorno il povero Jacopo era insoddisfatto di un dipinto e lo voleva buttar via, ma il futuro Nobel lo spronò: «Quando un disegno non funziona devi insistere. È così che poi inventi qualche cosa di veramente bello». Poiché a volte perseverare è diabolico, la coppia Fo Rame ammorbidiva lo sprone con la teoria del piano B, che suggeriva di cercare strade alternative per raggiungere la meta. La teoria veniva applicata in tutti i campi del vivere, dal cerotto a farfalla al posto dei punti per un taglio in fronte a obiettivi molto più alti ed esistenziali. Comunque la nonna Pina curava sbucciature e ferite con una bella sputacchiata. Ma in questo paradiso dlla pedagogia alternativa anche i Fo denunciavano qualche rocciosità. Franca obbedì al diktat imperante nei primi anni Cinquanta (Jacopo è del 1955) che imponeva di lasciare per tre notti il neonato solo nella sua stanzetta: dopo lunghi e disperati pianti si sarebbe calmato per sempre. Non è proprio andata così, lui denuncia traumi irrimediabili e si è tenuto le figlie nel lettone fino ai sei anni e oltre. Per quanto sconsigliata dai pediatri anche oggi (rischio soffocamento), la pratica aveva degli effetti benefici sull’istinto delle piccine, che dai primi giorni di vita sapevano arrivare al seno materno e servirsi da sole senza svegliare nessuno.
Anche in materia di sesso i Fo non erano tanto aperti: nonostante Franca avesse portato il figlio a vedere Helga, epocale film tedesco che svelava i misteri dell’eros e del parto, quando il quattordicenne Jacopo le chiese come potessero masturbarsi le femmine «visto che non avevano niente fuori» si affettò un dito mentre tagliava qualcosa, diventò tutta rossa e lo spedì dal padre. Che se la cavò pavidamente: «Non posso rispondere a questa domanda. Chiedilo alle tue fidanzate». Era noto in famiglia che il ragazzo non aveva fidanzate.
Poiché tutto quello che avviene nell’infanzia e nell’adolescenza ha inevitabili strascichi, 1987 queste curiosità sessuali inappagate procurarono al ragazzo – ormai diventato militante extraparlamentare, attore, maestranza teatrale, cartonist coofondatore del Male, scrittore, ecologo, esperto cosmico di culture alternative – un imbarazzante conflitto con il Pci. Sulle gloriose pagine di Tango, inserto satirico dell’Unità, scrisse un articolo di divulgazione sui muscoletti vaginali e sull’insipienza della sanità italiana che a differenza di quella scandinava non si occupava della loro tonicità nel post partum, condannando le concittadine all’insensibilità sessuale e all’incontinenza (urinaria). Il partito non apprezzò che sul giornale fondato da Gramsci si disquisisse di muscoletti, perdite urinarie e orgasmi. La sezione di Casalecchio di Reno, la più ortodossa delle orbe, lo sottopose a processo. Lui si difese con un’inedita autocritica sulle proprie difficoltà sessuali. Seguì dibattito.
Franca, solidale e generosa allo stremo con gli operai in lotta, le donne stuprate, i disabili, i carcerati, le vittime dell’uranio impoverito, era e, a sei anni dalla morte, continua ad essere, riverita come una santa laica. Di Dario e del suo Nobel non c’è bisogno di dire. Jacopo ha affrontato e affronta i suoi insormontabili genitori con torrenti di affetto, ma anche uscendo di casa a 16 anni. Ci sono state fasi difficili, depressioni, malesseri. «Il momento più buio è stato quando ho visto mio padre, negato per lavori manuali, che tentava di aggiustare una porta sgangherata di Alcatraz quando era ancora un rudere. Doveva essere davvero in pena per me se si era messo a fare il falegname».
C’è una cosa che però non è riuscito a perdonare a suo padre. O forse a perdonare sì, ma a capire no. «Non avevo ancora 18 anni e mia madre fu rapita, torturata e stuprata dai fascisti. Quando la portarono a casa, coperta di sangue e bruciature di sigarette, qualcosa saltò nel mio cervello. Invece mio padre era una statua di sale, non traspariva un sentimento. Da dargli un pugno».
Per chiudere in leggerezza: negli anni in cui Dc e Pci se le davano, a un party Franca ascoltò per caso una modella e un travestito che parlavano di una trappola sessuale orchestrata contro un ministro democristiano in partenza per il Messico. Lo scandalo tropicale poteva essere un bel colpo per il Pci, ma sulla ragion politica prevalse la lealtà: avvisò il ministro, del quale non ha mai rivelato il nome. Per anni, ogni Natale, arrivò a casa Fo Rame un cesto di prelibatezze. Anonimo.

Articolo pubblicato su Il Venerdì di Repubblica il 20 settembre 2019