L’Intervista. Jacopo Fo e il mezzo secolo dell’opera simbolo del padre. Una festa celebrata al Piccolo.
di Diego Vincenti
Mezzo secolo di giullarate. Di parabole popolari, golfini aderenti e bizzarri miscugli linguistici (il grammelot). Buon compleanno “Mistero Buffo”. Che sembra ieri ma il debutto risale al 30 maggio 1969, nella Statale Occupata. Altri tempi. Poi un lungo peregrinare per l’Italia, lontano dai teatri ufficiali. Una rivoluzione. Che da martedì si festeggia al Piccolo teatro Grassi. In scena Mario Pirovano, uno che ha dedicato la sua vita all’opera di Dario Fo e Franca Rame. Dodici repliche. Ognuna introdotta da un personaggio della cultura. A cominciare da Jacopo Fo. Testimone di quella passione pazza per l’arte e per la vita, che ha raccontato in “Com’è essere figlio di Franca Rame e Dario FO”, da poco uscito per Guanda.
Fo, come nacque lo spettacolo?
«Da tempo mio padre si stava spendendo per dimostrare come la musica colta italiana provenisse da quella popolare, strutturata sui ritmi di lavoro. Si pensi solo alle mondine, agli zappatori o ai cordai, le cui attività sono legate ala nascita della tarantella. Questo studio lo mise in contatto con alcuni letterati che gli fecero scoprire le annotazioni a margine dei contratti notarili medievali. Costando molto la carte, gli appassionati di teatro utilizzavano gli spazi bianchi per annotare in linguaggio gergale le scene e i lazzi».
Le parole chiave del canovaccio.
«Esattamente, come capì subito mia madre, proveniente da una compagnia girovaga. Frasi riassuntive, non copioni. Che indicavano ad esempio il gioco del doppio, il clown bianco o quello rosso, il grammelot del nobile. In quel momento iniziò un lungo lavoro di archeologia teatrale per sviluppare l’intuizione».
Come si avvicinò suo padre al grammelot?
«Fu facilitato dall’esperienza del canto. Nei locali si incrociavano grandi artisti, da Moravia a Jannacci o De Andrè. Ogni tanto arrivavano anche musicisti americani di blues con cui lui provava a cantare in finto inglese. Immagini la faccia di questi signori di fronte a uno spilungone che si scatenava in una lingua che non esisteva!».
Cosa ha significato all’epoca il “Mistero Buffo”?
«È stata una rivoluzione nel modo di concepire il teatro. Ma non si parla di una questione legata esclusivamente alla scena, al vedere per la prima volta un attore da solo che non faceva cabaret. Era anche la scelta di abbandonare i palcoscenici “normali”, per portare il lavoro nelle Case del Popolo e negli spazi non teatrali. Eppure non era un teatro povero. I miei genitori misero in piedi una macchina complessa dove si muovevano con due camion e, in ogni piazza, erano attesi da 15 volontari per montare il palco, le torrette, i fari. L’operazione quindi era complessiva e riguardava l’arte, lo spazio, la sua fruizione».
Manca oggi quella tensione politica?
«La cultura ufficiale è avvilente, gran parte degli stessi Teatri di Stato sono guidati dai soliti personaggi che giocano a scambiarsi le figurine, con generosi compensi. Fra i giovani invece vedo desiderio di cambiamento e un altissimo livello di idee e competenze. I vecchi dovrebbero stare all’occhio: non si rendono conto che ci sono migliaia di ragazzi che stanno pensando determinate cose».
Perché scrivere un libro sui suoi genitori?
«Perché a 65 anni raccontare cosa è successo è un modo per capire. È stata una storia complicata. A 7 anni andavo a scuola con i carabinieri perché mio padre aveva parlato della mafia a “Canzonissima” e qualcuno mi aveva condannato a morte. Cose così. Avevo quindi il bisogno di fare ordine nella testa. Anche per stemperare la loro perdita».
Articolo pubblicato su Il Giorno-Milano il 6 ottobre 2019