Intervista a Jacopo Fo su Il Fatto Quotidiano, a cinque anni dalla scomparsa di Dario Fo – Parte I
Dario Fo, cinque anni dopo. Il racconto di Jacopo: “Noi dispersi in Svizzera. Gli schiaffoni di mamma. E il rumore degli alluci…”
Che poi il caso diventa solo una scusa, una parabola della mediocrità. Non si è geni a caso. Artisti a caso. Uomini a caso. Cittadini a caso.
Dario Fo non è casualità. È stratificazione e sintesi di una piramide di storie. “Per comprendere la sua arte ho rivisto a rallentatore, fotogramma per fotogramma, gli spettacoli. E lì ho capito. Ho capito che sul palco, solo lì, apriva la sua cassaforte delle emozioni, del dolore, dei traumi, della follia, della guerra. E diventava un mistero”.
Chi parla è Jacopo Fo, 66 anni, testimone consapevole di un mondo. Il suo mondo. Che per molti è anche parte di un mondo collettivo. Non utilizza parole a caso, concetti vacui, non si nasconde dietro la retorica, dietro la poesia forzata; non si cela dietro la banale consapevolezza di essere figlio ed erede di una magia umana e artistica, di un sodalizio naturale, dove Dario Fo e Franca Rame andrebbero pronunciati senza pausa. E il tredici ottobre sono cinque anni dalla morte del padre.
Passati cinque anni, la prima immagine.
Gli ultimi giorni in ospedale: scioccanti; (pausa) ha affrontato la morte in maniera consapevole ma fingendo di niente: voleva dipingere le pareti della stanza per materializzare le allucinazioni che viveva a causa delle medicine.
Artista fino all’ultimo…
Non voglio mitizzare quella situazione, perché era spaventato; con un nostro amico, Doriano Cranco, si era sfogato: “Sto lottando come un leone”, mentre con me si comportava senza tentennamenti, mi parlava di progetti, di idee, di spettacoli da realizzare negli anni successivi; (cambia tono) è stato un bel modo per affrontare gli ultimi giorni, perché lui, al di là dell’ictus del ‘97, è sempre stato bene; anche dall’ictus uscì dipingendo otto ore al giorno, eppure riusciva a vedere solo una striscia verticale di un centimetro: l’attività del cervello per curare il cervello.
Quando pensa maggiormente a suo padre?
In questo periodo sto realizzando la regia di un’operetta, La serva padrona, e ho il problema dei costumi da invecchiare; (sorride) era il 1963 e mia zia costumista si presenta con tutti i vestiti della corte del Re di Spagna. Vestiti perfetti, bellissimi, di tessuti pregiati. Mio padre li stende a terra e inizia a sporcarli con spray di vari colori. Io piangevo, credevo fosse impazzito, in realtà li stava rendendo adatti al teatro, altrimenti con le luci sparate sarebbero sembrati finti perché lucidi.
Nel libro ricorda che una delle regole di suo padre era di non mollare mai. E lei aggiunge: “Non mollare può diventare l’anticamera del martirio”.
Per questo ho dovuto consultare uno psichiatra bravissimo, proprio per capire cosa mi scatta nella testa. “Dottore, non posso smettere di fare quello che sto facendo, qualunque cosa succeda”. E lui: “Perché, se ti fermi cosa accade?” Dopo la domanda sono andato in crisi, nella mia mente non esisteva quel quadratino, non esisteva il diritto di buttarmi in terra e piangere. Da questo punto di vista la mia famiglia era disumana.
Anche sua madre?
Lei urlava, piangeva, emetteva emozioni, però all’atto pratico era un carro armato, non in grado di deviare dalle sue azioni; azioni gestite in chiave fisiologica, quasi animalesca.
Mentre suo padre.
Uguale ma senza piangere e senza urlare.
Mai?
Ricordo mamma dopo il rapimento: era in casa, distrutta, piena di bruciature, sangue, tagli. Qualcosa di incredibile. Eppure non volle andare in ospedale. (pausa lunga) È toccato a me medicarla. Io e lei. Soli. Quando finalmente è riuscita ad addormentarsi, sono tornato in salotto e ho trovato una decina di amici, seduti dappertutto, l’appartamento era piccolo, e mio padre in piedi. Immobile. In silenzio. Per questo mi sono avvicinato e l’ho abbracciato, quasi con rabbia, come per spronarlo a parlare. A chiedermi qualcosa.
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Intervista di Alessandro Ferrucci pubblicata il 3 ottobre 2021 su Il Fatto Quotidiano.