Figlio di due giganti. Vita con Franca Rame e Dario Fo.
“Mio padre era incuriosito pure dalle sue allucinazioni”
Pubblichiamo alcuni estratti dal libro “Com’è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo” scritto da Jacopo Fo e pubblicato da Guanda.
L’atteggiamento che ti porta ad affrontare i momenti tragici continuando ad osservarli con curiosità l’ho notato anche quando mio padre stava morendo. Aveva difficoltà a respirare e andammo da uno pneumologo, il professor Poletti dell’ospedale di Forlì. (…) Aveva davanti i risultati degli accertamenti e chiese a mio padre come si sentisse. Mio padre disse: “Faccio un po’ fatica a respirare quando salgo le scale”. Poletti mi lanciò un’occhiata stupita. Come a dire: “Fa le scale?!?” (…)
Sicuramente Dario si rendeva conto di essere alla fine (…) Ma nonostante questa consapevolezza lottò contro l’idea di dover morire facendo finta di niente. (…) Lottava a ogni respiro. Aveva iniziato a fare strani movimenti interni mentre respirava, come un subacqueo che compensasse. (…) Aveva in programma uno spettacolo a Roma, all’Auditorium, per il 16 giugno 2016. Ma non era in grado di andarci e fummo costretti ad annullarlo. Lui se ne rattristò molto, gli pareva una resa. Così si intestardì e il primo agosto non solo era ancora vivo ma riuscì a recitare, di fronte a tremila persone, due ore di Mistero buffo. E finì cantando. Telefonai al professor Poletti: “Dario sta cantando di fronte a tremila persone”. E lui:“Sono sempre stato ateo ma adesso credo ai miracoli!”
IN QUEI GIORNI mio padre stava finendo di scrivere un libro e di dipingere una sessantina di quadri su Darwin (…). Ci teneva. Di fronte alla morte lo affascinava l’incredibile, improbabile evoluzione delle creature viventi. Riuscimmo a organizzare una mostra a Cesenatico e lui andava lì (…) a raccontare la storia di Darwin ai visitatori. Era entusiasta quando arrivavano i gruppi di bambini. A metà settembre decise di tornare a Milano, di lì a poco le sue condizioni peggiorarono e dovette essere ricoverato. (…) Via via che la malattia progrediva i medici avevano aumentato le dose di cortisone e antidolorifici e questo gli causava allucinazioni. (…) Una notte, in ospedale, passò molto tempo a descrivermi quello che vedeva: sui muri degli arredi, sulle persone si formavano disegni astratti in movimento, linee, curve, forme geometriche che costantemente cambiavano consistenza. (…) Le allucinazioni un po’ gli facevano paura, perché aveva perso il controllo delle sensazioni, ma contemporaneamente era affascinato. Pochi giorni prima che morisse telefonai ai suoi amici più cari chiedendo se volevano venire a salutarlo. Quando arrivò Carlo Petrini, gli raccontò delle visioni e insieme decisero che era un peccato perdere quelle immagini e che si dovevano dipingerle sui muri e sugli arredi della stanza. (…) Ne parlai con il primario e lui acconsentì. (…) Mio padre stava morendo, non ne voleva parlare, ma c’era una cosa che sapevo bene: non voleva soffrire.
Con mia madre ne avevamo discusso più volte. Mi aveva detto chiaramente che se si fosse trovata a mal partito avrei dovuto occuparmi di portarla in Svizzera (…). Era stanca di vivere, non aveva nessuna malattia mortale, ma era piena di acciacchi, non riusciva più a recitare perché l’emozione provocava dei collassi. Era ad Alcatraz per un corso di teatro e se ne stava tutta raggomitolata al ristorante. Poi quando iniziavano le lezioni aveva una straordinaria mutazione. Di fronte a decine di ragazze e ragazzi cambiava postura e addirittura il viso ringiovaniva. Era un fenomeno che rasentava il paranormale. Una sera la passammo insieme a parlare. Lei mi fece promettere di nuovo che l’avrei portata in Svizzera. Parlammo a lungo un po’ di tutto, una conversazione che era un fiume in piena, quelle situazioni in cui senti che hai aperto il cuore. Fu bello.
Finito il corso di teatro, decise di ripartire per Milano. Seppi in seguito che a due care amiche aveva detto, separatamente, che arrivata a Milano sarebbe morta perché non desiderava più vivere. Arrivò martedì. Mercoledì mattina si svegliò, andò in bagno, si lavò, poi si mise a letto e morì senza un lamento, Con mio padre era diverso, parlare era più difficile. (…) Quando fu ricoverato mi preoccupai di dire ai medici e agli infermieri che, quando la situazione fosse diventata insostenibile, volevo che fosse messo in coma farmacologico. Iniziò un braccio di ferro quotidiano: volevano fargli sempre nuovi accertamenti, temevano forse di essere accusati di non averle provate tutte per curare un premio Nobel. (…)
ERO SEDUTO sul letto a fianco di mio padre quando un medico entrò sbraitando. Fuori c’era uno che voleva vedere Dario. “Questo non è un albergo!”. Uscii dal reparto e trovai Beppe Grillo. Gli avevo telefonato il giorno prima ed era partito da Genova la mattina presto. Lo feci entrare. Si fermò un’ora a parlare di politica, delle difficoltà del Movimento, della sua stanchezza, con mio padre che si toglieva la mascherina per dirgli che non doveva mollare, che bisognava resistere e andare avanti. Fu un bell’incontro, a mio padre fece piacere rivedere Grillo con il quale aveva una grande amicizia. Ma il suo arrivo fu forse importante per indurre i medici a smetterla con i tentativi terapeutici. Forse pensarono che era meglio evitare che Beppe si incatenasse all’ingresso dell’ospedale per difendere il diritto alla buona morte. Quel pomeriggio aumentarono la dose degli antidolorifici e mio padre si addormentò.
Io dormivo sul letto di fianco al suo.
Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 20 Settembre 2019